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Fu allora che Federico Richter s’arrestò. L’uomo con la pistola era davanti a lui, lo aveva inseguito per ore. E adesso stava per sparare. Dopo lunghi interminabili secondi quel tipo fece fuoco e Federico morì.

Morì con una domanda:” Perché mi hanno ucciso? “. E quella domanda continuò a tormentarlo oltre la morte. La sua mente e il suo corpo martoriato interrogavano le ragioni del suo omicidio, chi l’aveva eseguito e chi erano i mandanti.
Triste perdere la vita, più triste andarsene senza un movente. Il fantasma di Federico Richter vagava inquieto. Gli investigatori, dopo inutili tentativi, avevano deciso di archiviare l’inchiesta. E l’inchiesta decise di prenderla in mano lui, il fantasma.
Richter vedeva nitidamente la sua fine. Era un mercante d’arte e si recava a casa d’un collezionista. Un pomeriggio estivo, canicolare, di quelli che mettono a dura prova membra e cervello. Non si poteva pretendere, in tali circostanze, di andare oltre l’ordinaria amministrazione. Richter aveva un solo desiderio: che la casa in cui si recava avesse un buon impianto di condizionamento.
Era appena sceso dal taxi, quando sentì gridare il suo nome. Si voltò e vide la faccia del suo assassino. Un tipo basso, tarchiato, col naso da pugile, il collo conficcato tra le spalle. Richter sfogliò rapidamente l’album delle sue conoscenze, ma quell’uomo non c’era. Un mistero. Un pericolo. Perché sulla scena era comparsa improvvisamente una pistola, un’arma di grosso calibro che a Richter aveva improvvisamente ricordato il suo passato di maratoneta. Approfittando d’un attimo d’incertezza del killer se la diede a gambe, subito inseguito dal tizio che di lì a poco lo avrebbe ucciso.
Furono tre lunghe ore – per la precisione due ore e 58 minuti – di corse disperate nel centro cittadino. Lunghi viali e strette viuzze, sterminati parchi e piccoli giardini. In uno di questi ultimi Richter credeva finalmente di aver trovato rifugio, l’agognata salvezza. Ma all’improvviso comparve l’uomo con la pistola, sbucato dal nulla. Era davanti a lui. Dietro c’era un muro di mattoncini, attraversato da rose rosse, rampicanti. Federico Richter fu raggiunto da due proiettili, alla testa e al cuore.
Non subito pensò all’inchiesta. Tendeva a porsi grandi questioni, in sintesi una domanda: cos’è la vita dopo la morte? Rifletté a lungo, senza riuscire a dare una risposta consapevole. Finché s’accontentò d’un obiettivo meno ambizioso e più congeniale al suo stato: l’indagine. Chi era l’uomo che l’aveva ucciso? Naso da pugile, gambe da corridore. Mister tarchiato – un tipo sui cinquant’anni – era sicuramente un ex atleta. C’era un collegamento tra la sua azione brutale e la visita di Richter al collezionista nella città canicolare? C’era un legame con l’insieme del lavoro di Richter? Con quel mondo dorato e nebbioso che fa riferimento al mercato dell’arte?
Era un universo in cui Federico Richter navigava a vista. Da vivo era convinto che fosse apprezzato e stimato. Da morto lo assaliva più di un dubbio. A chi aveva pestato i piedi? A chi aveva guastato la festa? S’inquietava davanti a questi dilemmi, ma lo portavano troppo in là, sulla pista tortuosa dei mandanti. E invece doveva mettersi sulle tracce dell’assassino, una faccia che gli era rimasta ben impressa. Era suo coetaneo – anche Richter aveva 50 anni – e, come lui, era uno sportivo. Un ottimo corridore, certamente, ma su tutto prevaleva quella faccia da pugile suonato. Federico Richter fece il giro delle palestre cittadine: una, due, dieci, venti. Aveva già perso le speranze quando vide mister tarchiato. Era all’angolo del ring, dava consigli ad un giovane pugile, lo incitava facendosi possedere dalla stessa foga con cui impugnava la pistola. Sarà stato pure un atleta, ma era un assassino per carattere.
Federico Richter si fermò a guardare l’uomo che l’aveva ucciso. Provò pietà. Pietà e voglia di giustizia. Quando imboccò l’uscita lo seguì. Vide che prendeva la strada della stazione, ma salì su un treno in disarmo, una vecchia locomotiva arrugginita. Sembrava non ci fosse nessuno e invece all’improvviso comparve un tipo che definire curioso è un eufemismo. Di un’età vicina ai cent’anni, alto, secco, curvo, calvo, con una cicatrice che gli attraversava la guancia sinistra. S’agitava con ampi gesti delle braccia e mister tarchiato lo guardava con soggezione. Alla fine l’ assassino di Federico Richter se n’andò con una borsa scura e con lo sguardo bastonato. E Richter naturalmente diventò l’ombra di mister cicatrice, che fece un lungo, interminabile, giro della città, fino a una casupola appartata, in periferia. Era una specie di bunker, con quadri di grandi firme alle pareti, sui mobili, per terra. Sembrava un tesoro, ma molti di quei capolavori erano falsi, altri di dubbia attribuzione e solo per alcuni si poteva essere certi del loro valore.
Mister cicatrice, nella casupola-bunker, incontrò altre due cariatidi. Davanti al fantasma di Richter parlavano del suo assassinio. Ex gerarchi nazisti che mettevano su un gigantesco giro di quadri falsi per finanziare, in tutta Europa, movimenti di estrema destra. Richter era ritenuto un nemico, perché era un mercante d’arte onesto e capace, che faceva importanti perizie.
Federico Richter aveva scoperto tutto. E ora non era più la sua fine violenta a tormentarlo ma l’ingiuria di personaggi sepolti dalla storia. I vivi purtroppo erano loro. E lui era morto. Non sarebbe stato un traffico di opere d’arte a cambiare il corso delle cose, il volto della democrazia. Ma certo bisognava vigilare, bisognava guardare negli occhi l’amara realtà. Per trasformarla.

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