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La polizia ci fermò e ci chiese il motivo del viaggio. Noi, che venivamo da Cagliari, e non ci aspettavamo una domanda che poteva essere riservata a turisti d’oltralpe e d’oltremanica, con sguardo interrogativo rispondemmo semplicemente: “Siamo in vacanza”. E via con l’auto verso Mamoiada, l’auto semicieca, un faro ci aveva abbandonato e la polizia avrebbe potuto crearci difficoltà ma stranamente non lo fece.
Il paese ci accolse in un’atmosfera ch’era già magica, ma avevamo bisogno di riposarci, prima della festa, prima che si scatenassero le danze intorno alle cataste di legna, ai mille fuochi di Sant’Antonio. Il bed&breakfast era accogliente, atmosfera di riservata cortesia. Lì conoscemmo uno degli Issohadores storici; custodiva costume e maschera senza far trapelare il suo entusiasmo per quella cerimonia onirica, che veniva dalla notte dei tempi; sapeva tenere la giusta distanza, diviso tra due mondi, la città e il villaggio, il lavoro e le radici. Fu lui che ci accompagnò e ci fece da guida tra vicoli e piazzette, mentre la gente, come ogni anno a gennaio, s’attardava fino all’ultimo momento, s’affaticava senza risparmiarsi perché tutto doveva essere pronto per la grande festa, per la prima uscita dei Mamuthones.
Al calar delle tenebre, i fuochi ci sorpresero, attraversandoci occhi, membra e cuore. Era solo l’inizio del nostro cammino verso l’ignoto, stordimento e pace, ansia e serenità, frenetico susseguirsi di emozioni, di sentimenti che non avevamo mai provato, forse irripetibili.
La mattina seguente ci svegliammo col profumo del caffè, dei fiori e del miele di corbezzolo. Uscimmo e vedemmo le lingue di fuoco innalzarsi verso il cielo. Tutt’intorno la felicità delle famiglie di Mamoiada, che ci offrivano piccoli bicchieri di vino rosso e dolci fatti in casa. I Mamuthones però non c’erano, si facevano attendere, anche se noi non avevamo bisogno di vederli per sentire la loro presenza che veniva da lontano, da culture e mondi sconosciuti, riti dionisiaci al tempo della società senza classi, quando i sardi si mascheravano da animali e davano vita alla rappresentazione di riti pagani. Eravamo lì per lo spettacolo, per le maschere che si muovevano con passo cadenzato, ma non si può dire che avessimo fretta. Eravamo tranquilli come un pubblico disciplinato che sapeva di essere al posto giusto nel momento giusto. L’attesa era sopportabile e sarebbe stata ben ricompensata quando, all’imbrunire, sentimmo la musica dei campanacci. Annunciava l’arrivo dei Mamuthones che, all’orizzonte, ci colpirono per le loro pelli, per i loro sguardi immobili, i visi nascosti da sculture sottratte al legno di fico e di pero selvatico. La processione avanzava e ormai quelle maschere che venivano dalla notte dei tempi erano accanto a noi, giravano intorno al grande fuoco, mentre gli issohadores tenevano a bada quegli esseri, metà uomini e metà buoi. Gli Issohadores con i loro costumi sgargianti e con le loro facce spettrali lanciavano lunghe funi di giunco tra la folla, catturando giovani donne che avevano paura ma sapevano sorridere.
Quella notte uscimmo per le strade incantate e facemmo onore alla tavola. Ancora vino e maialetto arrosto, adagiato sulla legna benedetta, ricchezza del paese barbaricino.
Lasciammo Mamoiada senza rimpianti. Avevamo vissuto momenti fantastici e il ricordo dei fuochi, della gente, della gioia, i volti scuri dei Mamuthones e la magnificenza abbagliante degli Issohadores – ne eravamo sicuri – ce li saremmo portati con noi. Per sempre.

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1 commento su “Le maschere e l’ignoto”

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