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No, non era un borsalino, sembrava un cappello da cowgirl che avrei visto bene dalle parti del Messico o in un film western, non di quelli classici, diretti da John Ford, ma una scena di Sergio Leone o di John Huston. Lei l’indossava con un’eleganza disarmante, che non ammetteva discussioni. E così quel cappello da cowgirl – nero ed accogliente come un basco – viveva di luce riflessa, perché la ragazza emanava un misto di semplicità e sicurezza, doti di cui probabilmente non si rendeva conto.

Era troppo giovane e inesperta per accorgersi della corrente di dolcezza e di fascino che stava nascendo dai suoi occhi verdi, una corrente che avrebbe potuto abbracciare il suo quartiere, la sua città ed estendersi anche oltre, senza frontiere, senza muri. Dipendeva da lei e dal mondo che altri per lei stavano costruendo, un mondo che per il momento non diceva niente di buono, guerre e deliri all’ordine del giorno, e poi ingiustizie e povertà e tormento.

Il virus dietro il cappello da cowgirl

E come se tutto questo non bastasse, era arrivato il virus a peggiorare le cose, a sconvolgere la vita quotidiana, a infrangere sogni e principio di realtà. Lei – diciott’anni appena compiuti – era già capace di reagire con polso fermo alle avversità. Diceva:”Devo essere leggera, pensare positivo e andare avanti senza voltarmi.” Il papà e la mamma – stupiti da tanta saggezza, di cui non capivano la provenienza – l’ammiravano in silenzio, con misura, senza esagerazioni.

E Margherita – questo il suo nome – ricambiava con altrettanto affetto, ricco di serenità e fiducia, perché si sentiva protetta e amata teneramente, senza pressioni, senza invasioni di campo. I suoi pensieri, i suoi desideri, volteggiavano nell’aria, come i versi dei poeti, finché l’aria non si fece insidiosa trappola che nascondeva il nemico invisibile. E allora Margherita, sotto il cappello da cowgirl, capì che doveva voltare pagina, che non poteva che essere lei, così giovane, a prendersi cura dei suoi genitori. Non rinunciava però alla sua vita fatta di arte e buongusto, di studio delle forme e di esplosione di colori.

L’arte nel cappello da cowgirl

Dalla realtà traeva ispirazione, ma non era l’ispirazione che la guidava, piuttosto un miracoloso impasto di linee e passioni intimamente legate alle tecniche e alla velocità dei suoi tempi, ma anche profondamente radicate nella storia, nella cultura rinascimentale, nella figura dell’artista che spazia con curiosa sapiente eleganza e sensibilità – come Leonardo Da Vinci – tra pittura e scienza, scultura e letteratura. “No, non sono affatto di moda”, si ripeteva Margherita: spesso soffriva della sua attività molto poco sociale, della sua bellezza che rifiutava tempo e spazio. In quei momenti si cavava in fronte il suo cappello da cowgirl e accompagnava il suo corpo a fare quattro passi verso il porto, particolarmente suggestivo quando il mare spazzato dal vento a folate  disegnava onde d’un azzurro inquieto. Inquieto azzurro come le barche dei pescatori che danzavano sull’acqua quasi uccelli marini nervosi e taciturni per il maltempo che aveva fatto scappare i pesci, il loro cibo. Ormai era un fuggi fuggi generale, di uomini e di donne, di paesaggi e di case, o così sembrava, perché ogni cosa si sottraeva allo sguardo, ma in realtà tutto era fermo, immobile.

La rivolta del cappello da cowgirl

Vite sospese, angosce diffuse, realtà oscure, a cui Margherita però non s’arrendeva, a cui si ribellava con gli argomenti della ragione e le energie della volontà. E quel cappello da cowgirl, quell’occhiata obliqua e indolente, erano specchio delle sue sensazioni, che Margherita raramente portava a maturazione linguistica, ma che era facile decifrare per me che sapevo vedere più che guardare.

A volerle sondare le curve del cuore, Margherita, nel suo lessico personale più che familiare, quando la fissai per la prima volta, restò muta ma pressapoco si espresse così:”Chi sei tu che mi osservi? Smamma! Via di qui!” Parole che non mi scoraggiarono, e infatti replicai con una mia tipica espressione che avrei voluto depositare all’ufficio brevetti e che suppergiù diceva così:”O fanciulla col cappello da cowgirl, mica è tua l’aria!”  E in quel momento ci fu il colpo di scena. 

Lei cappello da cowgirl, io cappello da cowboy

Anch’io indossai un copricapo del west, un cappello da cowboy, simile a quello di Margherita e lei, piacevolmente sorpresa, piegò leggermente le labbra in una smorfia di sorriso. Fu allora che mi presentai:” Mi chiamo Federico e passavo di qui. Tu m’incuriosisci assai. Te lo dico così, senza vergogna!”. Mi sarei aspettato di tutto, compreso uno scontro fisico, e invece Margherita fece uscire dal bozzolo il suo sorriso.

Non avevamo bisogno di parole, riconoscemmo l’un l’altro le nostre qualità e i nostri difetti, le cose che ci univano e quelle che ci separavano. Cappello da cowboy io, cappello da cowgirl lei, percorremmo insieme il resto della strada, lasciando indietro il virus, preparandoci ad affrontare opportunità e insidie del nuovo mondo. Cercando la frontiera, l’ostacolo, il muro da abbattere, come in un meraviglioso film, protagonista una straordinaria cowgirl, insofferente alle regole e all’autorità, libera e sincera quanto un ideale.

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